
Fino a ieri guardavamo con angoscia il progressivo degradarsi della Terra, come fosse una terribile possibilità che riguardava principalmente i suoi ghiacciai, la sua atmosfera, le sue risorse, i suoi mari, e le conseguenze di tutto ciò erano considerate un rischio cui eravamo esposti. Il coronavirus ha buttato all’aria queste idee e ci ha tolto ogni illusione, richiamandoci alla realtà: noi stessi siamo in una condizione identica a quella del pianeta Terra. Il pianeta Terra siamo noi. L’essere umano (come ogni altra creatura vivente) è in una condizione precaria, allo stesso modo del pianeta, perché un’altra specie, quella dei microorganismi (dei virus), sta dimostrando il suo potere, la capacità di minare la nostra esistenza. Scrive Duccio Demetrio, pedagogista, filosofo e accademico italiano:
“Il silenzio rappresenta una delle esperienze umane più contraddittorie e lo stiamo scoprendo in questi giorni drammatici del Coronavirus, perché viviamo il silenzio in modo diverso, anche a seconda di come lo abbiamo coltivato e lo coltiviamo nel corso della nostra vita. Lo percepiamo come un momento di raccoglimento e di meditazione, ma non tutti l’hanno vissuto o lo stanno vivendo in questa direzione, perché il silenzio ci terrorizza anche, ci spaventa, ci fa sentire tremendamente soli…”
Se ci facciamo un po’ di attenzione, in situazioni normali c’è molto rumore nelle nostre vite. Rumore reale (come quello del traffico, della televisione, della radio, dei telefoni..), ma anche rumore metaforico: troppa informazione, troppa connessione, troppi canali di comunicazione. Non è un caso se con l’arrivo di questa pandemia, si sia diffuso il neologismo “infodemia”, che sta a indicare la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, spesso non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento. Anche l’informazione produce rumore.
Quello che mi ha colpito (e che mi colpisce) di più durante i giorni dell’isolamento è il silenzio. In verità quello che sto chiamando silenzio non lo è affatto. Si tratta solo della mancanza di uno specifico rumore, quello del traffico stradale, in assenza del quale affiorano altri suoni: il canto degli uccelli, ma anche i suoni provenienti da altre case, bambini che giocano, il vicino che suona uno strumento, due chiacchiere scambiate in strada (a distanza di sicurezza). Rumori vivi, di persone e di animali, che prendono il posto dei rumori prodotti dai mezzi meccanici. Il silenzio non è mai veramente silenzio, non è deprivazione sonora. Sono invece altri suoni, che di solito non percepiamo perché coperti da qualcosa di più rumoroso.
In generale, sappiamo che il rumore agisce come evento stressante, e suscita quindi nel nostro organismo la classica reazione da stress, con le stesse conseguenze negative. Il rumore ha quindi un effetto negativo anche per la nostra salute mentale. Tuttavia il rumore è normale. Se è il silenzio che vuoi, devi andartelo a cercare. E proprio perché il silenzio, nella nostra società, è diventato una merce rara, ce lo dovevamo andare a cercare appositamente. Sempre più persone lo cercano camminando nella natura.
Il silenzio ci è essenziale per concentrarci (per esempio nel lavoro) ed è anche la chiave per lavorare su di sé. Serve uno spazio di silenzio per ascoltarsi. Finché restiamo in un flusso fatto di rumore, comunicazione, parole, musica, notizie, discussioni, è difficile dare alle nostre emozioni lo spazio adeguato per esprimersi. L’ascolto dei segnali del corpo ha bisogno di silenzio. È utile imparare a coltivare attimi di silenzio attorno a noi, crearli, cercarli attivamente.
Restare soli con se stessi a qualcuno fa paura. Ed è una cosa che capisco, perché a volte la nostra mente è un tale tumulto e casino di pensieri che abbiamo assolutamente bisogno di qualcosa che ci distragga per non impazzire. Però, se in questa solitudine, in compagnia del silenzio, spostiamo la nostra attenzione sul corpo, su quello che sentiamo, sulle sensazioni della pelle, probabilmente il silenzio ci farà meno paura.
(Fonti: testo rielaborato tratto da un articolo di Marina Innorta)
G. Manoni