La leggenda del “Club 27” è un fenomeno, chiamato così dalla stampa musicale, che raggruppa una serie di musicisti maledetti che hanno in comune una cosa: sono morti all’età di 27 anni, spesso in circostanze misteriose. Alcuni studiosi hanno cercato di capire cosa potesse spingere artisti di grande calibro a procurarsi la morte (spesso per suicidio tramite cocktail di farmaci o droghe), provando a collegare il rischio di morte prematura con il livello di fama raggiunto dall’artista durante la sua carriera.
Dianna Kenny, professoressa di psicologia presso l’università di Sydney, ha pubblicato uno studio in cui veniva analizzato un campione di oltre 12mila musicisti deceduti tra il 1950 e il 2014. Questo lavoro ha messo in correlazione i generi musicali suonati con la tipologia di decesso, evidenziando come:
🟡 tra i musicisti metal risulta più frequente il suicidio,
🟡 per il rap/hip hop la morte per omicidio,
🟡 per il blues l’arresto cardiaco,
🟡 per il jazz e il folk il cancro.
La riflessione dell’autrice sottolineò poi come queste tipologie di decesso prematuro siano in alcuni casi legate ai contenuti veicolati dalla musica stessa, e in altri più in generale ad una vita di eccessi legati al mito del “vivi veloce, muori giovane”.

Nella seconda metà degli anni ’80 a Seattle iniziò a circolare la parola “grunge“, per indicare un genere musicale (un rock alternativo) dallo stile libero e ribelle, depresso e pessimista. Violento, anche. Non è un caso che il grunge viaggiò di pari passo con una pulsione suicida, che per questi artisti rappresentò probabilmente l’unica certezza in grado di nobilitare la loro “non-vita“. Ecco spiegato perché, al termine di ogni concerto di queste band, gli strumenti venivano distrutti proprio sul palco, davanti agli occhi dello spettatore. È il mondo stesso che veniva spaccato, con rabbia, per poi ritornare ad uno stato di indifferenza: finita la musica, finisce tutto. Ad oggi, tutti gli esponenti principali di questo genere musicale sono morti suicidi. Tra questi casi di cronaca riguardanti rockstar decedute in età prematura, ricordiamo i recenti suicidi di Chris Cornell (dei Soundgarden) e di Chester Bennington (dei Linkin Park), legati da profonda amicizia, che si sono tolti la vita a pochi mesi di distanza.

Ecco, se esiste nella vita psichica un effetto che possa spiegare queste morti, credo si possa ritrovare soprattutto nel rapporto con un dolore poco consapevole. Nel vissuto di un artista (e quindi in persone così in vista, così esposte) certi nuclei di dolore tendono ad essere tenuti lontani dalla consapevolezza. Il “Sé ” della rockstar facilmente si considera identico a quell’idolo adorato dalla massa, simbolo di un uomo forte, potente e padrone delle situazioni. Contemporaneamente, però, la dimensione interiore propria dell’artista si allontana, e tutti gli aspetti di fragilità, vulnerabilità e dolore vengono messi da parte. In questo modo, quando per diversi motivi (come delusioni lavorative o relazionali), il “Sé ” si trova ad affrontare delle difficoltà, la personalità viene ridimensionata e il risultato può essere un senso di vuoto e di spaesamento.
Il dolore deve quindi essere reso oggetto, parola, canzone; e solo a quel punto ci si può sentire meglio. Il dolore interiore non può essere contattato, ma soltanto buttato fuori da sé, sul corpo o in un testo. Non si può che riflettere su quanto siano profonde certe solitudini, e su quanto un certo tipo di esposizione mediatica non faccia che amplificarle.
Fonte: articolo “l’illusione del mito” di Mattia Maccarone, testo integrato e rielaborato
© G. Manoni